Locandina 17 gennaio_di Franca Molinaro

È fissato per il 17 gennaio a Castelfranci, il primo appuntamento con “Le Ricorrenze della Grande Madre”, serie di manifestazioni stagionali legata al ciclo della terra e delle tradizioni ideato nell’ambito dei progetti del Dipartimento di Antropologia del CDPS. Castelfranci, piccolo centro irpino, è avviato sulla strada del vino fin dalla costruzione della ferrovia, nel secolo scorso, strada ferrata che permetteva il trasporto delle uve verso il Nord, oggi promuove i suoi prodotti col Castelfranci Wine Festival, una manifestazione di notevole successo. Alla mia proposta di adesione al progetto, il professore Di Napoli è stato entusiasta ed il sindaco ha accettato con entusiasmo. L’intento è quello di riproporre i fuochi rituali, abbandonati da qualche anno e ripresi con successo da altri paesi quali Nusco. Ai fuochi sono legate altre tradizioni che andremo a scoprire grazie all’incontro-studio, è in programma, infatti un appuntamento, alle ore diciassette, nella sala consiliare, in cui ci si confronterà, tra esperti, sulle tradizioni, i simbolismi e le radici storiche dei riti. Interverrà il sindaco Generoso Cresta, il prof. Alessandro Di Napoli referente del progetto per Castelfranci, intellettuale operoso del CDPS, critico letterario attento ad ogni tipo di scrittura, autore su Silarus, rivista letteraria del Centro Sud.  Di Napoli illustrerà le tradizioni del luogo legate a Sant’Antonio Abate e alle “focalenzie”. In paese, spiega il professore, c’era la tradizione di allevare un maialino libero per le strade, ogni persona si sentiva in dovere di cibare la bestiola che girovagava tranquilla senza allontanarsi. Per la festività del santo il maiale ingrassato era sacrificato in dono alle famiglie povere. In altri paesi, quali Sant’Angelo all’Esca, c’era la stessa tradizione con alcune varianti, il maiale era dedicato a San Michele e le sue carni finanziavano la festa del santo.

L’intervento del prof. Paolo Saggese, direttore del CDPS, sarà incentrato sulle feste romane che si svolgevano in questo periodo, le “Feriae sementinae”, durante le quali si lustravano  villaggi e campi e si ornavano di ghirlande bovi e giovenghi che, in tale ricorrenza riposavano. L’intervento di Saggese servirà a comprendere meglio quelle corrispondenze tra il mondo antico e le nostre tradizioni, tema già trattato ampiamente dai maestri dell’antropologia. Scrive Di Nola: “La tipologia del rito di accensione invernale dei fuochi di Sant’Antonio è ricca poiché esprime insieme la funzione lustratoria attribuita al fuoco e gli effetti apotropaici dell’allontanamento delle streghe, delle influenze invernali, dei morti, delle malattie”. In verità, questa tradizione del fuoco potrebbe collegarsi ad un archetipo comune a tutta l’umanità. Il fuoco è, ovunque, simbolo della divinità e garantisce la purificazione dai mali di ogni provenienza. Il lupo mannaro si tiene lontano col fuoco, con la luce del fuoco si fugano le ombre, si illumina lo spirito, è fuoco lo stesso Spirito Santo come già altre divinità pagane. Presso i Celti era venerato un dio del fuoco, della luce e della rinascita, il dio Lug che presiedeva sul rinnovamento della natura e sulla fertilità degli animali, allontanava gli spiriti inferi. A lui era consacrato il maiale ed il cinghiale. Era così venerato da queste genti che ponevano la sua effige sulle armi e indurivano i capelli con una poltiglia gessosa per farla somigliare al crine del cinghiale in carica. Il dio era venerato nell’area in cui, nel IX secolo, da Costantinopoli, furono traslate le reliquie del Santo eremita egiziano, precisamente alla Motte-Saint-Didier, in Francia. Per quelle trasposizioni così naturali nella storia dell’umanità, forse perché esiste una legge del divenire o forse perché le anime subiscono quel processo di metempsicosi così caro a tanti credo, Sant’Antonio trovò magnifica veste da indossare e continuare a vegliare sugli animali di cui divenne patrono, sul fuoco che, secondo la leggenda andò a rubare all’inferno e sui maiali. Diverse leggende legano i miracoli del santo al maiale ma, una connotazione storica ci riporta alla testimonianza di Di Napoli riguardo al maialino del paese. Quando il santo arrivò in Francia, nel cuore della comunità benedettina di Mont Majeur, si costituì una comunità ospedaliera laica in cui erano curati i malati di ergotismo canceroso, un avvelenamento causato dalla secale cornuta, un cereale usato nella panificazione, contaminato da un fungo. La comunità laica si trasformò, nel 1297, in un ordine di canonici regolari retti dalla regola di Sant’Agostino. A quest’ordine fu concesso dalla Chiesa, di poter allevare maiali ad uso proprio ma i porcelli erano allevati dalla comunità e giravano liberi per i cortili facendosi riconoscere da una campanella che portavano legata al collo. Dalla macellazione ricavavano carni per la mensa e grasso che, sciolto serviva la base per i medicamenti sugli ammalati di fuoco sacro detto poi fuoco di Sant’Antonio. Il termine “Fuoco” era riferito ai bruciori insopportabili che la malattia causava nel corpo degli ammalati, quanto alla sugna è servita da sempre (presso le classi povere, i ricchi usavano l’olio) come base per ogni pozione medicamentosa, a questa si aggiungevano succhi di erbe specifiche per ogni male. Fu così che Sant’Antonio Abate, accompagnato dal fedele maialino e da una schiera di altri animali, conquistò il posto d’onore, sulle mangiatoie e dietro le porte delle stalle, le sue “fiure”, tutt’ora resistono tra gli allevatori più devoti.